C’era una volta e c’è ancora, un luogo popolato da creature antropomorfe, animali umanizzati e candide ragazzine in abiti color pastello. Si tratta dell’immaginario di Mark Ryden, pittore statunitense classe 1967.
Proporzioni surrealiste, colori fuori fuoco e composizioni da preraffaelita, ci proiettano in un paese più che “delle meraviglie”, enigmatico, animalesco e per certi versi mostruoso.
L’ atmosfera naturalmente perfetta, risulta sorprendentemente anomala ed eccezionale; i temi descrivono il costante rapporto amore/odio tra uomo e natura, e lo raccontano come una favola dove chi vince non è più il bello. Al contrario,“semplicemente” viene lasciato spazio ai sentimenti, alle emozioni, allo stupore, al fascino, alla paura che si prova davanti qualcosa di anormale, inconsueto e grottesco.
Oscilla tra analogie simboliche e dissonanze di significato. Figure rassicutanti o che nell’accezione comune vengono percepite come rassicuranti, sono rappresentate in modo anomalo e “deforme”, sconvolgendo i canoni classici e mutando il loro aspetto ma anche e soprattutto il loro significato simbolico.
Quattro “bambole” monocromatiche dai capelli alle scarpine, prendono il thè apparecchiato su un albero stroncato e mangiano al posto di biscottini, neonati nudi; giriamo pagina e c’è un’infermierina in ginocchio che accudisce come una mamma un alberello sofferente in procinto di morte.
Tutte le consuetudini infantili del gioco, dell’amicizia e dell’amore crollano in ogni rappresentazione; non c’è crudeltà o tristezza, non c’è uno spettro di rassegnazione, al contrario un climax che cresce e si evolve in un’armonia spiazzante. In un certo senso potremmo condividere questo universo “magnifico”, ma non potremmo mai comprenderlo fino in fondo; possiamo apprezzarlo, ma è frutto di un esperienza talmente personale che ha forza d’ esistere, per essere contemplata.