Musica e Morte. O per meglio dire, Rock e Morte. Binomio che dagli anni ’60 ha creato tanti, forse troppi, casi di complotto sul decesso di artisti internazionali. Per citarne alcuni, si può far riferimento alla maledizione del 27; la leggenda voleva che alcuni dei più grandi artisti del rock-blues morirono proprio a 27 anni: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Robert Jonson ed anche Kurt Cobain. Ben si lega alla leggenda della J, artisti morti sempre in quegli anni il cui nome o cognome aveva proprio questa fatidica lettera. Ma forse la prima, ed anche la più intrigante, è quella che riguarda uno dei due padri fondatori dei Beatles: Sir Paul McCartney. Questa è una storia di morte, e come in tutte le storie, c’è chi crede e quindi valorizza le ipotesi e vede indizi ovunque, e chi al contrario, le ascolta di sfuggita o le legge senza dare il minimo peso, pensando che sia una nuova teoria complottistica. In questo documento non si vuole pendere né da una parte nè da un’altra, ma raccontare lo svolgersi dei fatti e lasciare ad altri pareri e nuove ipotesi.
Siamo nel Michigan, è il 12 ottobre 1969, ed una voce di un Dj radiofonico esce dagli speaker con la più inquietante notizia possibile nel mondo della musica in quell’epoca. Per un attimo, chiunque si fosse trovato al volante, in quella cittadina, sintonizzato su quella stazione radiofonica, chiunque, avrebbe rallentato con una sensazione di sconforto. Si perché quel Dj annuncia che Paul McCartney è morto. Ma non morto in quel giorno o poche ore prima; morto anni prima, precisamente nel 1966, ma rivelato solo il giorno prima proprio al Dj da una telefonata anonima.
Le circostanze sono da classico incidente stradale: Una sera del 1966 Paul esce dalla sala prove dopo un litigio molto animato con gli altri tre Beatles. Si mette al volante e dopo alcuni chilometri si ferma da una donna, forse un’autostoppista o forse una prostituta, la quale monta in macchina senza riconoscere inizialmente Paul. La strada è buia. L’ illuminazione allora non era certo quella di oggi. In un tratto poco più illuminato, Rita, questo il nome della donna, riconosce Paul, ed inizia ad agitarsi e ad urlare come se davanti avesse un fantasma. Paul è distratto da questa reazione, cerca di farla calmare, inizia a dirgli di non agitarsi troppo, di stare calma, senza far caso, di conseguenza, al semaforo che da verde diventava rosso. Non vide neppure un camion che iniziò a suonare alla vista della macchina di Paul arrivare dritta verso di lui. In quel momento Paul sente il clacson, rimette gli occhi sulla strada, spaventato sterza prepotentemente, ma lo schianto contro un albero è inevitabile; balzano fuori entrambi, morendo sul colpo.
Il racconto dell’anonimo continua. E il dj continua a riferire quanto accaduto; si perché a questo punto, i primi ad essere avvisati di ciò che era successo furono proprio gli altri tre “Scarafaggi”. La parola giusta è sconforto; non si poteva dare al mondo una notizia simile, non ora che il successo era all’apice. La decisione, anche se sofferta, fù la più drastica: non diramare la notizia del decesso e trovare nel più breve tempo possibile un sosia, fisicamente parlando. Trovarono un agente di Polizia, tale William Campbell, che dopo alcuni ritocchi plastici, si avvicinò molto alla fisionomia del Baronetto defunto.
Questa è la storia che l’anonimo raccontò al Dj. Non si può dar certo retta ad uno sprovveduto che telefona in una radio del Michigan, in una fredda serata, dicendo che uno dei più famosi artisti del momento fosse morto. No, se però non avesse aggiunto che le prove erano sotto gli occhi di tutti, nascoste tra copertine, testi, canzoni ascoltate al contrario; insomma segni di un’ammissione che si vuole però tenere all’oscuro. Dal 1966, tra l’altro, i Beatles smisero di fare concerti live, ufficialmente per via dell’eccessiva reazione dei fan alla vista dei loro beniamini, ma in realtà proprio perché il “nuovo” Paul avrebbe impiegato troppo tempo per imparare a suonare il basso e imitare i movimenti del suo predecessore.
Ma il primo vero indizio è proprio del 1965, quando esce l’album “Rubber Soul” e un 45 giri con un singolo non compreso nell’album, dal titolo “We can work it out”, cioè “Ne possiamo uscire”, o meglio “Ce la possiamo fare”. Ma a fare cosa? Forse a superare la perdita del loro caro amico? Una cosa è certa; da questo momento le cose iniziano a cambiare velocemente. I Beatles non vestiranno più con la loro divisa, tutti uguali e cambierà il loro modo di fare musica, diventando più cupo rispetto un tempo.
Tale cambiamento si avverte nel loro album seguente, “Revolver”. Ma di stranezze evidenti ne abbiamo prova con “Sgt. pepper’s lonely hearts club band”, uno degli album più acclamati nella storia del Rock. Nella foto della copertina, i quattro musicisti, vestiti di colori sgargianti, sono in piedi davanti ad una specie di tomba adornata da fiori gialli posti a forma di basso a quattro corde (lo strumento suonato da Mc Cartney)! Nella stessa foto la testa di Mc Cartney è sormontata da una mano aperta, un simbolo di morte nelle culture orientali. All’interno del book, un’altra foto mostra sulla divisa indossata da Mc Cartney un distintivo con la sigla OPD: formula in voga nei paesi anglosassoni per indicare una persona “dichiarata ufficialmente morta”: “Officially Pronounced Dead”. Nuovi presunti indizi vengono dal retro della copertina, in cui Paul è l’unico ripreso di spalle e appare troppo alto rispetto agli altri. Qui compaiono i testi delle canzoni sovrapposti a una nuova immagine del quartetto. George punta il dito verso la frase “At five o’clock” (“Alle cinque”, che sarebbe l’ora dell’incidente). La cosa più strana è che se prendessimo uno specchietto e lo mettessimo davanti alla scritta della gran cassa “lonely” ed “hearts” si formerebbero due frasi: “1 ONE 1” e “He Die”; dove 1 1 1 sarebbero i tre superstiti, ed He Die significherebbe lui è morto o lui morì, anche se non in un perfetto inglese.
Altre “prove” a favore della versione della morte di Paul sono in Abbey Road. La copertina più famosa del mondo offre diverse interpretazioni. I quattro Beatles camminano in fila, come in un funerale e ancora una volta Paul è l’unico a distinguersi dagli altri: è l’unico a camminare a piedi nudi, quasi a indicare l’usanza di seppellire i morti senza scarpe, ha un passo diverso dagli altri e, benché notoriamente mancino, ha la sigaretta nella mano destra. Sul Maggiolino Volkswagen bianco parcheggiato sulla sinistra, sulla targa troviamo scritto: “28IF”, e 28 sarebbero stati gli anni di Paul se fosse stato vivo.
Questa è solo una minima parte degli indizi che i restanti Beatles avrebbero messo per ricordare il loro amico defunto. Forse. Perché è probabile che dopo il divulgarsi di tale legenda, tutti insieme, con John Lennon a capo (grande appassionato di comicità nera), si divertissero a mettere questi finti indizi ovunque. Tanto che Ringo Starr in un’intervista disse : “Passavamo interi pomeriggi insieme a John, Paul e George a leggere articoli riguardanti questi indizi scoperti negli album. La gente ormai comprava i nostri dischi anche per questo”. Volendo credere a questa morte, dovremmo credere anche al fatto che un poliziotto travestito da Paul McCartney, negli anni successivi, avrebbe scritto canzoni come Yesterday ed altre bellissime melodie prima con i Beatles, e poi in una strepitosa carriera solista. Potremmo pensare questo? Ai posteri l’ardua sentenza..