“Non sempre avere a che fare con il nostro doppio è negativo”

Nata a Cagliari, Francesca Randi, è un’artista con un immaginario fortemente surreale; attualmente lavora nella sua città natale come fotografa e grafica. Il suo approccio con la fotografia è da lei considerato “un colpo di testa e di fulmine” e allora è corsa ad acquistare la sua prima macchina fotografica, con la voglia sfrenata di raccontare le sue storie attraverso la creazione di immagini.

Nessuna scuola d’arte: “sono autodidatta, ho imparato osservando i grandi pittori e fotografi del passato e sprecando una marea di rullini”, dice Francesca Randi, perché quando ha iniziato a lavorare con la fotografia non esisteva ancora il digitale.

Uno stile malinconico, a volte duro e allo stesso tempo surreale, come quello del Doppelgaenger, il doppio, l’altra parte dell’io, affrontato nel 2009 con le dodici opere esposte a Cagliari. “Questa è una delle tematiche che mi ossessionava da tempo”. “Tutti abbiamo subito dei traumi, delle ferite che a volte ci portano ad una sorta di sdoppiamento dalla realtà che ci circonda”.

Questa giovane e talentuosa donna sarda, attraverso queste opere, mette in scena l’altra parte dell’io, che non è visibile alla maggior parte di noi, ma che irrazionalmente esiste e riflette l’immagine di giovani donne e bambine, fotografate dalla Randi, portando lo spettatore al disorientamento totale.


Nella tua fotografia si denota un forte stile personale. I tuoi scatti sono frutto di un impulso, oppure c’è una preparazione precedente?

“Parte tutto da una certa ossessione verso un argomento specifico, poi c’è uno studio preciso su chi dovrà posare per quel determinato scatto, sulla location, gli abiti e gli oggetti che faranno parte del lavoro fotografico”.


Hai qualche personaggio di riferimento nel mondo dell’arte?

“Sono tanti, ad esempio i pittori fiamminghi, Caravaggio o il fotografo Robert Doisneau e tantissimi registi cinematografici come Kubrick, Tarantino, Tim Burton e i neorealisti italiani. Ho anche i miei film feticcio, quelli che guardo mille volte e non mi stufano mai, come Shining, Picnic ad Hanging Rock, Piano piano dolce Carlotta, Miriam si sveglia a mezzanotte, Donnie Darko, Blow Up, ecc ecc…”


Nelle dodici opere esposte a Cagliari, hai affrontato il tema del Doppelgaenger, fenomeno che rappresenta l’altra parte dell’io, “la quale dopo tanto tempo si rivela come un fantasma del passato alla nostra coscienza”. Perché il Doppelgaenger? Quale è stato il  percorso che ti ha portato ad affrontare questo fenomeno? Quali le influenze?

“Questa è una delle tematiche che mi ossessionava da tempo, e prima o poi dovevo tramutarla in immagini. Doppelgaenger è una parola tedesca che si riferisce ad una leggenda, secondo la quale ognuno di noi avrebbe un doppio o sosia. Se per sventura dovessero incontrarsi, uno dei due dovrebbe morire per mano dell’altro. Il fenomeno del doppio è stato inizialmente studiato da Freud. Ho letto tanto sull’argomento, tutto il progetto è incentrato sul concetto di Perturbante. Freud nel suo saggio dice che: “Il perturbante, ciò che porta angoscia, è un non-familiare, qualcosa che assomiglia al nostro ambiente domestico ma che in realtà cela in sé un qualcosa di straniero, sconosciuto, enigmatico. Il perturbante che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un’impressione”. In psichiatria il doppio rivela tutta una serie di patologie, come la schizofrenia, disturbo bipolare e borderline, ma anche semplici traumi che la nostra mente inizialmente rimuove e che riaffiorano quando meno ce lo aspettiamo, creando forti stati di angoscia. In passato tantissimi artisti hanno affrontato questo argomento, ma soltanto due hanno colpito in modo particolare la mia attenzione, come ad esempio Kubrick e la scrittrice Anais Nin. Questi due artisti erano ossessionati dal doppio”.


Ti è mai capitato di vivere in prima persona questo fenomeno dissociativo?  Sia che sia stato positivo o negativo.

“Credo che ciascuno di noi abbia provato una cosa simile. È proprio questo che mi affascina dell’argomento, senza arrivare a patologie gravi come la schizofrenia. Tutti abbiamo subito dei traumi, delle ferite che a volte ci portano ad una sorta di sdoppiamento dalla realtà che ci circonda. Ci sono dei traumi che affiorano all’improvviso, magari nell’età adulta, e ci fanno stare male, all’inizio non capiamo perché, poi però dobbiamo affrontare la situazione e quella parte di noi che non pensavamo nemmeno lontanamente di avere. Ricordiamoci però che non sempre avere a che fare con il nostro “doppio” è una cosa negativa, infatti se da una parte può operare ai danni del soggetto, dall’altra può invece realizzare i suoi desideri più segreti, agendo come il soggetto o la sua coscienza non oserebbe mai. Liberandoci quindi da sovrastrutture che l’educazione, la società e a volte noi stessi ci siamo imposti”.


Secondo te qual è la differenza tra moda e stile?

“Spesso gli stilisti ci incanalano in determinati clichè, che le donne purtroppo seguono stagione dopo stagione. Da questo punto di vista a volte si esagera, tutto questo è un po’ schizofrenico. Per me indossare un abito equivale ad indossare uno stato d’animo, ci si deve ascoltare, capire e seguire il proprio stile. Non amo i modaioli a tutti i costi, quelli che come pecore seguono la corrente del momento. Con la moda si deve giocare, fino ad arrivare a uno stile personale, che non deve limitare quello di nessun altro”.


Potresti trarre ispirazione da qualche fotografo di moda? o l’hai già fatto?

“I fotografi di moda che più riescono a stupirmi, sono quelli che creano magia e fiaba, che riescono a raccontarmi una storia. Te ne cito uno su tutti, proprio perché lo sento molto vicino a me e al mio modo di concepire le foto di moda: Tim Walker, assolutamente fantastico! Per il resto di solito traggo ispirazione da una marea di cose che la mia mente macina ogni giorno, film, romanzi, saggi, immagini di ogni tipo, impressioni e macino, macino sino a quando tutto prende forma”.


Si potrebbe parlare di moda applicandola a questo fenomeno?

“Ogni volta che indossiamo un abito ci creiamo volutamente o inconsciamente un determinato ruolo o personaggio. La moda in questo senso aiuta tantissimo, oggi più che in passato. Esiste un abito per ogni situazione, circostanza o personaggio si voglia creare, ci si può trasformare in qualsiasi momento; tutti noi lo abbiamo fatto almeno una volta nella vita”.


Quale stilista secondo te potrebbe rappresentare al meglio il Doppelgaenger?

“Abbiamo l’eredità di tutta la moda del passato e se ci pensi è magnifico! Amando tantissimo cinema e teatro, gli stilisti che mi hanno incuriosito maggiormente sono quelli che più sapientemente riuniscono epoche e stili, creando degli abiti spettacolari e originali, fiabeschi e gotici allo stesso tempo. Mi vengono in mente Vivienne Westwood, Kenzo e Alexander McQueen”.


Secondo quali criteri scegli gli abiti dei tuoi scatti?

“Dipende dall’argomento che sto trattando. Per esempio, per Doppelgaenger, cercavo qualcosa che avesse un sapore antico, d’altri tempi, perché le location scelte per ciascuno scatto sono tutti complessi industriali in disuso ormai da anni. Adoro l’archeologia industriale, evoca mille cose; a me personalmente ricorda una società post-atomica come quella del famoso cartoon che ha segnato la mia infanzia: Canon. Mi piaceva immaginare una società ormai distrutta, dove le industrie in disuso giacevano addormentate ai piedi delle ragazze-bambine e del loro doppio”.


Che rapporto hai con lo specchio? (Come oggetto di sdoppiamento figurativo)

“Lo specchio è un oggetto che adoro. L’ho utilizzato per vari lavori. È una porta spazio-temporale che ci porta a scoprire un altro sé. Lo specchio amplifica e moltiplica l’immagine e gioca a confondere realtà e artefatto.”


Tra i tuoi lavori qual è quello che più ti è piaciuto realizzare? Quali sono le emozioni che provi realizzando le tue opere?

“Provo sempre un’emozione grandissima nell’iniziare un nuovo lavoro. È una vertigine indescrivibile perché c’è sempre un elemento d’imprevedibilità che subentra quando inizio a scattare che ti cambia tutto improvvisamente. A volte il solo spostamento delle nuvole sopra il sole, o il cambio d’espressione di una modella  creava quel momento imprevisto che però dava alla foto un’atmosfera incredibile.”

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