“The only real elegance is in the mind; if you’ve got that, the rest really comes from it.” Diana Vreeland

 La signora Vreeland detestava tutti gli stereotipi e si notava dal suo carattere deciso, il suo stile unico, lo spirito brillante ma soprattutto per la capacità innata di trovare un linguaggio nuovo nell’esprimere l’essenza della moda che ai più era indecifrabile.

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Dietro a tutti i suoi spettacolari accessori e sotto i vestiti più sontuosi, si nascondeva una donnina piccola e non proprio bellissima, caratteristiche che all’epoca avrebbero scoraggiato profondamente le prospettive per il futuro di una giovane donna. Ma lei sapeva bene quali fossero le sue qualità e le seppe utilizzare al meglio.

Volubile ed eccentrica come la sua casa completamente dipinta e arredata di rosso, poteva permettersi di dire che è meglio indossare i maglioni al contrario perché “fanno più piatta”, solo lei poteva essere presa sul serio senza mai sembrare una vecchia pazza con quei due riccioloni inamidati da giudice del Settecento, il rossetto scarlatto e i pomelli rossi sulle guance da ottantenne. Probabilmente decise di non seguire la moda e di imporsi per farsi seguire da essa proprio per non subirla, per non incorrere nella difficoltà di ritrovarsi anonima in mezzo a tanti e complessata. O forse la sua era una personalità così forte, tanto da non poter rimanere inespressa e costretta all’interno di canoni e regole? Di sicuro sappiamo che è stata una fra le identità più definite e forti del ‘900. Figura discussa, controversa ed eclettica nel mondo della moda, amata e allo stesso tempo odiata, ha rivoluzionato il ruolo del Fashion Editor e non solo.

Diana Dalziel nasce a Parigi nel 1903 e si trasferisce a New York insieme  alla sua famiglia dopo la prima guerra mondiale. Il cognome Vreeland arriva nel 1924, da un marito banchiere che si aggiunge a una madre americana discendente di George Washington (Emily Key Hoffman) e a lontani cugini De Rotshschild.

La sua avventura nel fashion system iniziò un giorno per caso nella hall del St. Regis Hotel dove Carmel Snow, allora direttore di Harper’s Bazaar , la vide danzare sventolando la gonna di un grazioso vestito Chanel in merletto bianco con dei boccioli di rosa fra i capelli e rimase così colpito da telefonarle al più presto per offrirle di scrivere la pungente e provocatoria rubrica che la renderà famosa e s’intitolerà “Why don’t you…?”, ovvero una serie di ironici spunti per analizzare con un taglio finto-superficiale la società contemporanea. Nel giro di pochi anni divenne la Fashion Editor più stimata e richiesta di New York. Dopo aver diretto i migliori fashion magazine dagli anni ’40 ai ’70, accettò l’incarico di consulente per il Costume Institute del Metropolitan Museum, rivoluzionando anche qui quasi tutto, organizzando esposizioni di moda  che furono epocali nei temi e cambiarono la scrittura visiva delle mostre (non solo di moda).

Dal 10 marzo, presso Palazzo Fortuny di Venezia,  è in corso la prima mostra  in Italia a lei dedicata dal titolo Diana Vreeland after Diana Vreeland. Il titolo sottolinea la necessità di decontestualizzare i molti pezzi che compongono la sua caleidoscopica carriera e la mostra cerca quindi di approfondire i diversi aspetti del suo lavoro cercando di dare inedite chiavi interpretative della grammatica del suo stile e del suo pensiero.

Partendo dalla straordinaria galleria della sua immaginazione, la signora Vreeland ha davvero colto l’essenza della sua epoca e ne ha fatto parte arricchendola, rivoluzionandola in un modo davvero speciale.. Forse avrebbe potuto dare qualche consiglio alla sua erede Anne Wintour che, con il suo educatissimo caschetto, ha riportato la moda ad avere molte regole e meno libertà d’espressione dando agli abiti e agli accessori il compito di omologare piuttosto che quello di far emergere, appunto, “l’identità”.

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