Emidio Antoci: un artista dannato

Nel cuore di Tratevere, prima di piazza S.Maria, vi è un’altra piazzetta con un ristorante, due bar e gente che si gode il clima primaverile. Ma questo, è ciò che succede a terra.

Se si alza lo sguardo verso l’ultima finestrella del palazzo, si avverte la presenza di uno strambo personaggio. Il pittore, l’artista Emidio che fino a poco tempo fa teneva in finestra bambole, pupazzi, giocattoli appesi per i capelli o per le braccia, visibili a tutti i passanti. Se si guardano con ansia sembrano sull’orlo del suicidio, se si guardano con fanciullezza non sono altro che pupazzi stesi ad asciugare.

Il nonnetto si affaccia e mugugna qualcosa di incomprensibile, ma alla fine ci apre il portone. Forse un po’ incoscienti ad entrare in casa di un folle sconosciuto, veniamo catapultate nella prima sala ove non si identificano bene gli oggetti data una penombra scurissima. Ciò che arriva dritto al cervello è un odore stantio e un pulviscolo di germi e batteri. Emidio ci accoglie seduto sul letto e comincia a parlare in maniera vaga, ma con una scioltezza che lascia pensare sia solito intrattenere persone colloquiando. In effetti è proprio così; c’è una quantità di oggetti, ninnoli, cianfrusaglie e doni da ubriacare la vista.

Poco si sa di lui, data anche la scarsa attendibilità delle sue parole. Ciò che conta è che è divenuto un pittore per un “veto fatto dalla zia”, ed egli è assolutamente consapevole di non aver alcuna vocazione artistica definendosi, anzi, un dannato. “Nella mia vita ha commesso molti errori e il Signore mi sta punendo tenendomi all’inferno, in questa casa”, da cui non esce da anni, data anche la sua cecità. Della sua arte,nessuna traccia, ad eccezione di un quadro raffigurante una Madonna, dalla dubbia autenticità.

Emerge il ritratto di un uomo solo, triste, pazzo, che si è lasciato andare e che non vuole parlare molto né della sua famiglia (a detta sua, i familiari sono quasi tutti morti, e i figli non li vede), né dei suoi quadri (di cui non vi è prova tangibile perché venduti tutti). Si dice andasse in giro con due paia di occhiali e due cravatte, quest’ultime ancora ben visibili, polverose e appese sopra il letto, ma le cose che lasciano senza parole, oltre alla quantità di oggetti che farebbe impazzire un mercataro di Portaportese, sono le scritte che coprono tutti i muri . “Emidio poeta dell’arte!”. Segni di amici? ci dice che non ne ha più, ma possiamo affermare quasi con certezza che tutte quelle parole sui muri sono la testimonianza di chi, come noi, era curioso di conoscere “il matto pittore trasteverino”.

Dopo un’ora di chiacchiere (sempre le stesse, data qualche rotella fuori posto del nostro interlocutore) ci esorta ad andarcene per non stancarci, mica scemo! Ci chiede di fare un miracolo per lui, con la consapevolezza che in verità non si possa fare niente per la sua “dannata esistenza”. Uscendo ci cade lo sguardo su una scritta colorata “la stanza dei pensieri”. Mai nessuna scritta fu più azzeccata.

Il mio cervello comincia a compiere voli pindarici, circa la vera esistenza di quest’ometto, quanto di vero c’è nelle sue parole, e quante altre storie invece avrebbe potuto raccontarci. Fatto sta, che io ci tornerò, mi sono ripromessa di farlo uscire di casa, ma probabilmente non si ricorderà neanche chi sono. Una volta fuori infatti, due ragazzi salgono dandoci il cambio; chissà questa volta Emidio cosa racconterà ai suoi nuovi amici.


Orizzonti.

Chi è? Che cosa volete? Non potete portare via le mie bambine, avete capito? Lasciateci stare, vi prego. Lasciateci stare. No, no, siete angeli dovete venire qui allora. Non potreste fare un miracolo? Voglio la pace, nel cuore e nell’anima, guardatemi, voi dovete fare un miracolo angeli miei, ascoltate, la maledizione è in me, in queste mie mani, sotto queste unghie sporche di vernice, grattatela via, io sarò la vostra tela, cancellate ciò che è inciso nelle mie rughe, e nel mio sguardo, datemi una seconda possibilità. Bisognerebbe nascere due volte, prima solo per prova, poi per vivere davvero, impareremmo di più.

Io non vorrei, io non volevo sbagliare tutto. Ma non posso rimediare, solo voi potete, voi, creature stupende, datemi la redenzione. Non sentite la puzza di bruciato che è in questo luogo maledetto, ditemi, angeli miei, non sentite il calore asfissiante del fuoco, il fumo che sale a intridervi i polmoni col puzzo di morte, voi che conoscete il miracolo ditemi la verità, non vi si bruciano le ali, in questo Inferno?

Volate via, prima che sia troppo tardi. Il sole è fuori da qui, alto, stupendo, non posso dipingerlo, altrimenti saprei spiegarvelo meglio, io e le parole non andiamo molto d’accordo, mi piacciono le immagini, i pennelli, posso dipingervi mentre prendete fuoco in questo Inferno, angeli miei?, andate via c’è il sole là fuori volate verso di lui, non lo temete, vero Dedalo, non avete paura di lui ma solo dell’Inferno, che ne dici, Icaro, ricorda un po’ il vostro labirinto questo orrore che gli umani hanno dentro di loro?

Andate via da qui, se non potete salvarmi, fuori c’è un sole bellissimo che non mi appartiene perché non posso rappresentarlo, non ho più quadri, né speranze, angeli, mi restano solo le mie bambine e voi non le porterete via, è chiaro? Ogni giorno le lascio stare sospese sul mondo, i piedi che ballano nell’aria. Voglio che vivano. Io ero un morto ambulante in cerca d’emozioni. Che almeno le mie bambole si salvino dall’eterna angoscia che è in questa casa, volete portarle via con voi, angeli miei?, portatele sul sole, lì è tutto più bello, non è così?

Lì la fine arriva, prima o poi, non si muore come qui, respiro dopo respiro.

Andate via, angeli.

Lasciatemi da solo con le mie bambole.

Io vivo fuori dal tempo, e sono un pittore, ma quando ero ancora vivo –vivo per davvero- ho visto l’orizzonte, quella linea ultima in cui il mare e il cielo si incontrano davvero, per sempre, e ho capito che è quella la verità, la verità che l’arte dovrebbe ricercare, perché è il modo che ha la natura per descrivere l’eterno, col suo inchiostro, l’orizzonte, angeli miei, quell’orizzonte che le mie bambole fissano ogni giorno appese alla finestra, lo cercano senza trovarlo –sì, ecco cosa fanno tutto il giorno sospese sul mondo- e ora vi faccio una domanda, angeli, una domanda cruciale cui non so rispondere ma dalla quale dipende tutto la mia vita cristallizzata in questo limbo infernale che è la casa buia in cui vivo senza più un quadro, senza più una passione, senza più la dignità di chi ha dalla sua ancora la ragione, una semplice domanda, angeli profani che non sanno il miracolo: può un pittore scrivere l’orizzonte sulla sua tela?