“L’architettura deve rispettare il luogo, integrarsi con esso, ascoltare cioè il suo genius loci”- Christian Norberg-Schulz. L’architetto, teorico e critico norvegese, che più volte nei suoi scritti sgrida l’architettura del ventesimo secolo indicandola come maestra nel creare “non-luoghi”, alienanti per l’uomo e irrispettosi dell’ambiente, ha sempre sostenuto il territorio come parte integrante del progetto architettonico. In fondo il principio, o meglio il piacere di camuffare le abitazioni con l’ambiente è sempre stato un chiodo fisso nella storia dell’architettura, da Le Corbusier che nel 1933 definiva la sua “Ville Radieuse” come la città di domani, dove sarà ristabilito il rapporto uomo-natura… ad oggi, periodo in cui dopo aver assimilato il concetto di “natura-batte-uomo”, che porta via ciò che costruiamo e si impadronisce in un batter d’occhio di ciò che non ci piace più (e non solo), si sviluppa una nuova corrente di pensiero.
Si tratta di un ripensamento del valore dei territori e della necessità che la città guarisca, per così dire, e cresca su se stessa. Per utilizzare parole tecniche “Si assiste alla ri-proposizione di una pratica ‘progettuale’, in realtà antica, che vede l’immissione di corpi architettonici nuovi in edifici e strutture urbane preesistenti”: in due parole, architettura parassita.
Il nodo della questione è riflettere sulle ragioni, sulle conseguenze o sulle valenze culturali (se ce ne sono) di questa sempre più estesa trasformazione del reale, su questa sorta d’instabilità permanente, dell’immagine urbana che si riflette sul senso della cultura del XXI secolo, ma nello specifico del presente; ossia della città, degli edifici, delle cose che diventano altro, perdendo il loro significato originario, acquistandone uno nuovo, magari improprio rispetto alle ragioni intrinseche di ciascun oggetto architettonico, ma coerente con la vita che si muove attorno ad esso, nonché con le diverse esigenze che affiorano e dilagano.
Viviamo in una società che fino a poco tempo a questa parte, ha preferito gettare prodotti per crearne di nuovi, sostitutivi, ma che a oggi si ritrova a dover fronteggiare problemi di iper consumo e iper spreco, vestendosi di rifiuti e spogliandosi di risorse naturali. A questo punto si è arrivati a prendere decisioni alternative, quasi obbligate, che hanno permesso di virare drasticamente la nave prima di andare a schiantarsi contro il più grande degli iceberg convincendo i passeggeri a non salire su scialuppe di salvataggio in modo chiassoso e prematuro. Dovendo fronteggiare decadenza e declino così ripido e rapido, a livello urbanistico si è fatta la scelta meno ovvia ma più efficace: modificare il paesaggio urbano attraverso la ricostruzione di edifici storici, completamente o quasi, distrutti.
Per Michael Serres, filosofo e scittore francese, il termine “parassita”, protagonista dell’omonimo libro edito nel 1980, entra nel dizionario architettonico come essere e valore, che ottimizza lo spazio incondizionatamente, attraverso una proiezione pensata per un futuro imminente. A oggi la gamma delle cosiddette “opere surrogate”, si è estesa a macchia d’olio e non si tratta più di una prassi per così dire “abusiva”, ma di una vera e propria ricostruzione di edifici in città grandi e piccole, in modo totale o parziale, non importa, consolidandosi come una “forma d’arte”, coerente con le esigenze dell’habitat contemporaneo. Londra è stata una delle prime pionere ad affidarsi a questa, allora nuova, tecnica. Nel 1986 viene progettata la “Clore Gallery”, un’ala del museo Tate Britain , su progetto di James Stirling, che attualmente ospita opere di William Turner. Ricordando l’ampliamento della galleria d’arte moderna della capitale inglese, si arriva a opere più attuali, come ampliamento di Rafael Moneo del Museo del Prato a Madrid nel 2007 o il progetto di Herzog & de Meuron per il centro culturale/sociale CaixaForum a Madrid (2008), solo per citarne alcuni.
L’architettura parassita aggiunge, si attacca, nasce e cresce come un bocciolo su una pianta morta; è distinta dall’opera iniziale, la sfrutta, la traduce in uno stato di necessità. Gli individui invecchiano, le specie degenerano, gli stati decadono; nasce la possibilità di far rivivere uno spirito, una storia, vestita di nuovi colori, forme e spazi. Con l’architettura parassita cambia il concetto di decadenza in senso totalitario; si inizia a percepire la fine come un atto circoscritto, che sfiorisce ma non sradica, che non spazza via cultura e tradizione. “La fine della civiltà”, diventa “fine di UN’ epoca”.
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